Una stanza vuota, una cornice priva di tela sospesa nel vuoto, un uomo ben vestito, la sua valigia, una segreteria telefonica; un silenzio artificiale, fitto di rumori impercettibili e indeterminati, dalla segreteria gli unici segni umani del mondo esterno.
Su questa trama quasi priva di ogni determinatezza, si ordisce un monologo fiume, liberatorio. Nella vita perfettamente organizzata di un impiegato qualunque, che anonimamente coltiva in segreto ideologie razziste e violente, deliri apocalittici ma anche tenere aspirazioni amorose, timori e premure infantili e comiche, irrompe un delitto compiuto “senza colpa”. Una macchia che si può rifiutare o abbracciare ma in qualsiasi caso destabilizza ogni sicurezza, apre le porte a una confessione incosciente quanto inevitabile.
La scansione ritmica del mondo esterno, l’obbligo a “tornare al lavoro”, rimangono le sole protezioni contro l’ammissione di una colpa orribile e veniale a un tempo, l’accettazione serena della “banalità del male”
“Quando si trattano temi come la patologia mentale, l'aberrazione, l'omicidio o qualunque cosa tenda a suscitare un rifiuto, si finisce sempre per collocarsi al di fuori dell'aberrazione stessa, solitamente caricando le rappresentazioni di un'assurdità che ci permette di osservarle da lontano, controllandole e cullandoci nella sicurezza di esserne estranei.
Per questo ho costruito uno spettacolo che presenta la patologia in una veste piacevole, divertente, perfino comica. Un cabarettista a suo modo attraente, uno showman che ispiri fiducia immediata e porti così il pubblico ad abbassare le difese e scoprirsi addosso le tracce di quella “normale” aberrazione.”
di e con Federico Paino