Un secolo dopo la nutrita personale di Klimt alla Biennale, approda a Venezia la mostra viennese che ha inaugurato le celebrazioni per i 150 anni dalla sua nascita (1862); così si ammirano al museo Correr gli artisti della Secessione, sotto la cura scientifica dei direttori del Belvedere e di Gabriella Belli, da poco alla guida dei nostri musei civici; artisti che presto abbandonano l'accademismo leccato da cui pure inizialmente non vanno immuni (lo stesso Klimt, il fratello Ernst e Matsch come spiegano le prime sale), per inseguire un sogno di più stilizzata bellezza che, a voler evocare la celebre distinzione proposta da Worringer, evolve dall'iniziale ondulazione lineare 'Art Nouveau' di natura 'empatica' verso un più castigato rigore geometrico 'astrattivo'. Vale per il paesaggismo (in cui a Klimt si affiancano Moll, Moser, Müller, Jettmar) come per il quadro di figura specie femminile (e qui troneggia il grande Gustav, 'pittore della donna' per eccellenza). Il fascino di quest'arte anzi risiede forse soprattutto nell'elegante conciliazione di due istanze apparentemente contraddittorie: quella dell'ondivago sconfinamento fra le arti (tanto maggiori quando applicate) e le tecniche (olii che illanguidiscono come pastelli o solidificano come prodotti orafi ecc.) e quella dell'assoggettamento ad un rigido confine ortogonale; istanze che nei simbolisti ospitati nelle mostre storiche della secessione (nata nel 1897) e oggi a Venezia si trovano sia separate (nei grovigli serpeggianti di Toorop, nelle ossute spigolosità di Minne) che armonizzate (nei soffusi enigmi di Khnopff). Nei viennesi esse non dimenticano né il fine ultimo di un'utopica opera d'arte totale di wagneriana ascendenza, né quello di una progettazione globale e totalizzante: lo si vede nel fregio di Beethoven del 1902 in cui convergono il genio letterario di Schiller, quello musicale di Beethoven e quello pittorico di Klimt ospitati nel nitido contenitore architettonico del palazzo di Olbrich; e lo si vede nel bruxellese Palazzo Stoclet (1905-1911) di Hoffmann (figura cardine della mostra) che riesce ad intrappolare nell'ossessiva ortogonalità di muri, mobili e arredi le spirali dell'intarsio musivo di Klimt (esposti sia gli stupendi 'bozzetti' klimtiani che i plastici di recente realizzazione dei due edifici). In questo progetto assolutizzante nemmeno la vita del committente può più scorrere spontaneamente, montata come una gemma nel castone di casa propria (memorabili a tal proposito i rimbrotti di Hoffmann al banchiere Stoclet sorpreso ad indossare pantofole e vestaglia sbagliati rispetto alla stanza in cui si trovava), mentre altri più concreti gioielli in mostra non mancano. In tutto questo la Vienna più moderna di Freud, Kraus, Schnitzler, Zweig, Hoffmannsthal, Wittgenstein, Schoenberg e Mahler (limitandosi ai maggiori) resta forse troppo sullo sfondo, affidata alle personali conoscenze del pubblico più colto, mentre prevale nettamente la nuova Bisanzio estetizzante che cattura nella foglia d'oro le ultime luci dell'impero tramontante, quello austro-ungarico. L'oro sigla il decennio maggiore di Klimt, il primo dello scorso secolo, teso tra gli estremi delle sue due Giuditte per la prima volta riunite: lo splendore effimero di una bellezza quasi insopportabile che successivamente lo stesso Klimt andrà disgregando in un brulichio pulviscolare e che nuove generazioni intaccheranno con le critiche protorazionaliste di Loos all'ornamento, le dolorose scarnificazioni di Schiele e i corrosivi, deformanti ed espressionistici conflitti psichici di Kokoschka. Ma sarà la Grande Guerra a tagliar corto, a dissipare il sogno, e in quel 1918 che vede disgregarsi l'impero, per singolare coincidenza simbolica muoiono anche Klimt (di ictus) e il suo giovane erede Schiele (di influenza spagnola). Dopo questo spartiacque storico, anche quella dell'arte sarà tutta un'altra storia.
Conferenza a cura di Paolo Pistellato.