Al centro di Anonimo veneziano lui e lei, ancora giovani, legati un giorno da un matrimonio tutto fuoco ed amore, ma adesso disuniti, lontani, lei con un altro uomo, e un altro figlio, in un’altra città, lui solo, a Venezia, sulla china
discendente di una professione fallita (voleva diventare musicista, è finito orchestrale). Si ritrovano a Venezia perché lui l’ha chiamata, ma l’altra gli si fa incontro piena di sospetti, di tensione. Cosa vorrà? Su e giù per le calli, in riva alla laguna, nei caffè, sopra i ponti a un tratto la verità viene fuori: lui sta morendo, minato da
un male inguaribile, e l’ha chiamata per vederla ancora una volta, per dirle, con il suo amore, il bruciore e l’ardore di tutti i suoi ricordi. Si amano, disperati, furiosi, poi lei riparte e lui, pacificato, chiederà alla musica il coraggio e la capacità di morire. Un tema rischioso, non nuovo in letteratura, ai limiti del patetismo. Enrico Maria Salerno, però, lo ha dominato con disinvoltura, evitandone gli inciampi e i pericoli.
David di Donatello come migliore attrice a Florinda Bolkan e premio speciale ad Enrico Maria Salerno (1971); Nastro
d’Argento per la migliore fotografia a colori a Marcello Gatti e la miglior musica a Stelvio Cipriani (1971).