Un mito chiamato Brando
– la rassegna proposta
dalla Casa del Cinema, undici film di grande
spessore tra dicembre e gennaio – è un’occasione imperdibile per rivivere la massima icona
del cinema (magari assieme a Marilyn Monroe), incarnazione di un fascino unico e irripetibile. Questo mito nacque nella prima metà
degli anni Cinquanta, i cosiddetti Eisenhower
Years, quando Marlon Brando irruppe a gamba
tesa in una Hollywood mortificata dal Codice Hays – grottesco specchio di un’America
rosa dal maccartismo e colorata da un frigido,
ipocrita perbenismo – secondo il quale persino i coniugi dovevano dormire in letti diversi,
obbligatoriamente separati da un comodino.
La sua canottiera e il suo giubbotto di pelle
– assieme alla t-shirt bianca di James Dean e
al bacino basculante di Elvis Presley – dettero
una sterzata improvvisa al mondo occidentale,
creando un nuovo tipo di gioventù, non più
accondiscendente alle regole degli adulti. In
altre parole, dei ribelli rabbiosi, alla ricerca di
valori propri, anticonformisti se non addirittura trasgressivi.
Nato a Omaha nel 1924, Brando proveniva
dal trionfo teatrale di
Un tram chiamato desiderio
di Tennessee Williams. E fu proprio portando
sullo schermo, era il 1951, il ruolo del greve
polacco Kowalski della pièce di Williams – a
cui fecero seguito
Il selvaggio
e
Fronte del porto
,
ambedue del 1954 – che creò una figura inedita, merito anche del regista Elia Kazan. Non
si era mai visto niente di simile sullo schermo:
bellezza eccezionale, corpo plastico, sguardo
magnetico, una carnalità esibita quanto prepo
tente. E soprattutto una canottiera che sembra
va promanare erotici sudori, di angiporti e di
letti sfatti, proponendo una sensualità diversa,
capace di dar corpo ai desideri inconfessati di
tante donne e tanti uomini. Parimenti, la sua
raffinata recitazione – formatasi presso l’Actors
Studio di Stanislavskij – esprimeva il giusto mix
di rancore e di voglia di vivere, con un broncio
capace di passare con naturalezza dall’ira alla
vulnerabilità, dalla tenerezza al dolore.
In seguito, in una filmografi
a che conta più di
quaranta titoli, interpretò i ruoli più svariati
diventando, volta per volta, un rivoluzionario
messicano (Viva Zapata
, 1952), Marco Antonio
(Giulio Cesare
, 1953), Napoleone, una simpatica
canaglia (Bulli e pupe
, 1955), un ufficiale nazista, un misterioso vagabondo (Pelle di serpente
,
1959), un ammutinato, un diplomatico (La
contessa di Hong Kong
, 1967), un militare omosessuale, un avventuriero inglese (Queimada
,
1969) e altro ancora. Fra i film successivi, dopo
un certo declino vissuto negli anni Sessanta,
due brillano di luce propria. Nel 1972 girò, uno
dopo l’altro,
Il Padrino
e
Ultimo tango a Parigi
. Nel
primo le sue mandibole serrate e le guance gonfi
e hanno colorato di superba regalità la figura, grande quanto pregna di infelicità, di Don
Vito Corleone; nell’altro, dietro il suo cappot
to di cammello e con i capelli ormai brizzolati,
incarnò il sesso nella sua accezione più pura,
quella in cui si può anche fare a meno di sapere
chi sia veramente il partner per tuffarsi in toto
nell’erotismo più sfrenato e scandaloso. Poi le
sue apparizioni si fecero, se non più rare, meno
significative (ma non per questo meno esose,
visto che in
Superman
fu pagato ben quattro
milioni di dollari per un cameo come padre di
Kal-El), con l’eccezione però di
Apocalypse Now
(1979), in cui nel ruolo del colonnello Kurtz
concretizzò magnificamente la quintessenza del
Male, l’orrore preconizzato da Conrad. A con
forto del grande riscontro di pubblico e di cri
tica, al di là ovviamente di qualche inevitabile
flop, Brando ha vinto numerosi Golden Globe
e vanta ben otto nomination all’Oscar, con due
statuette vinte per
Fronte del porto
e per
Il Padrino
, quest’ultima ritirata in sua vece, fra lo scon
certo generale, da una nativa americana che
rivendicò i diritti della sua maltrattata etnia. A
latere, ma ovviamente intrecciata al cinema, col
passare degli anni la sua vita privata – contò tre
mogli e una quindicina di figli ufficiali, nonché
centinaia di amanti, donne e uomini – diventò
se possibile ancora più turbolenta, con figli suicidi oppure in carcere per omicidio. Ma soprattutto vide un disfacimento fisico devastante e
autodistruttivo, con un corpo tremendamente
obeso (attorno ai duecento kili). Insomma un
presente – in stridente, drammatico contrasto
rispetto al radioso passato – terminato in un
letto d’ospedale a Los Angeles nel 2004. Il mito
evidentemente passa anche per queste strade...